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I pericoli ambientali di un attacco ai siti nucleari iraniani

I pericoli ambientali di un attacco ai siti nucleari iraniani

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L’opzione militare, per distruggere gli impianti nucleri iraniani, è in discussione ormai da alcuni anni, cioè sin da quando si venne a conoscenza del suo programma atomico. Lo scenario più probabile vedrebbe le forze aeree israeliane, sostenute a terra da nuclei di forze speciali, come protagoniste dell’attacco: assieme ad esse, però, potrebbero intervenire in sostegno le forze aeree e speciali di USA e Regno Unito; le quali, anzi, sorvegliano da qualche anno le attività iraniane, sia dal cielo che sul terreno, senza escludere l’appoggio a gruppi eversivi locali. Un altro aspetto, con molti precedenti storici nelle operazioni “coperte” israeliane, è la progressiva eliminazione fisica dei tecnici e dei militari responsabili di tale programma. Fin qui, tutto sembra procedere nella “normalità” di tali campagne, in una stretta cooperazione tra intelligence e militari, al fine di costringere l’Iran a rinunciare al proprio programma nucleare: una simile campagna, infatti, mira sia ad esercitare forti pressioni sul regime locale, nonché sul personale incaricato del programma; sia a preparare il terreno all’azione prettamente militare, volta alla distruzione degli impianti nucleari dell’Iran.
Cosa succederebbe però in caso di attacco ad un simile impianto, che contenesse materiale ad alta radioattività, come ad esempio un reattore in servizio o un deposito di combustibile irraggiato? E’ questa la domanda che vogliamo porci. I moderni reattori occidentali, infatti, prevedono esplicitamente di essere protetti anche da attacchi aerei (non solo da impatti aerei); anzi, in Europa, probabilmente a causa della Guerra Fredda, già molti vecchi reattori disponevano di una robusta struttura di contenimento esterna in calcestruzzo armato, del tutto simile ad un bunker, ed a bassa profilo balistico. Tuttavia, queste protezioni (per reattori o per altri siti nucleari) potrebbero non essere sufficienti contro ordigni bunker buster. Un eventuale attacco contro le strutture di comando e controllo della centrale, o più genericamente dell’impianto, bloccherebbe per qualche tempo il programma atomico, ma non lo distruggerebbe: senza eliminare fisicamente i siti di arricchimento (dove si “seleziona” l’U235) ed i reattori (dove si può “produrre” il Pu239) i danni causati sarebbero riparati in un tempo relativamente breve; a meno, ovviamente, di non uccidere intenzionalmente tutti i tecnici impiegati negli impianti. Un attacco dimostrativo non sortirebbe dunque i risultati voluti, e per di più esporrebbe lo stesso l’attaccante a rappresaglie terroristiche o missilistiche. Un’azione mirata, condotta da forze speciali, non sortirebbe altro che gli stessi effetti: cioè, o un attacco in grado solo di ritardare di qualche mese il programma nucleare iraniano, oppure quello di causare un grave incidente agli impianti nucleari, mettendo a gravissimo rischio sia l’ambiente circostante che gli uomini impiegati nell’azione (costretti, per agire, a penetrare nelle zone più sensibili dell’impianto stesso).

Possiamo dunque prevedere cinque scenari, a seconda di cosa ci sia all’interno del reattore, e del genere di attacco che viene portato:

– Reattore vuoto: in tal caso, l’attacco non presenterebbe che un minimo rischio, quantomeno del genere che ci interessa. Verrebbero infatti distrutte semplicemente le strutture della centrale e gli impianti del reattore, senza la presenza di combustibile radioattivo; l’unico problema potrebbe porsi nel caso in cui il reattore fosse vuoto per operazioni di refueling (ricarica del combustibile nucleare): in tal caso, infatti, i materiali interni dei contenimenti e del circuito primario presenterebbero tracce di attivazione nucleare, e verrebbero dispersi nell’ambiente (un rischio ambientale comunque minore).

– Reattore spento (cold shutdown): in questa ipotesi, oltre ai materiali strutturali “attivati”, si presenterebbe il grave problema del combustibile interno al reattore. Nel caso esso fosse appena stato caricato, e dunque non ancora irraggiato, il rilascio di materiale radioattivo nell’atmosfera sarebbe, di per sé, un problema minore: l’uranio, infatti, presenta una radioattività propria abbastanza blanda; il pericolo, invece, arriverebbe dall’inalazione delle particelle di uranio, che è un metallo pesante, e come tale altamente cancerogeno se va a fissarsi nei tessuti organici come i polmoni. Ovviamente molto peggiore sarebbe il caso di un reattore contenente combustibile irraggiato: lo abbiamo definito in cold shutdown, cioè senza pericolo di reazioni di fissione al suo interno (che sarà invece il prossimo caso); tuttavia, il materiale fissile presenterebbe al suo interno un grado relativamente elevato di impurità, altamente radioattive e frutto delle fissioni e trasmutazioni atomiche, il quale riversandosi nell’ambiente porterebbe agli effetti propri di un disastro nucleare (da 5 a 7 sulla scala INES ).

– Reattore acceso: in tal caso, abbiamo due esempi storici, vicini nel tempo o nello spazio. Cioè Fukushima e, soprattutto, Chernobyl. Questi eventi sono già stati ampiamente descritti e, semplificando, potremmo usarli come metro di paragone. L’evento di Fukushima potrebbe essere simile al caso in cui fosse bombardata e distrutta la struttura esterna del reattore, con la perdita dell’integrità del contenimento, nonché del controllo del reattore stesso: il nocciolo dunque fonderebbe, mentre verrebbero dispersi nell’ambienti vari elementi altamenti radioattivi o tossici. L’evento di Chernobyl, invece, potrebbe essere simile ad un attacco che intaccasse direttamente anche il nocciolo del reattore, con la distruzione totale dei contenimenti, un possibile incendio interno, e la dispersione diretta nell’ambiente di una parte significativa del nocciolo stesso; seguita dalla fusione della parte rimanente, sottoposta ad una reazione incontrollata. In ogni caso, l’evento raggiungerebbe il grado 7 della scala INES, cioè il massimo disastro possibile: l’unica differenza sarebbe data dalla quantità degli elementi dispersi, e quindi anche dall’estensione della zona colpita; sicuramente, tale area diventerebbe inabitabile, ma la dispersione degli elementi radioattivi interesserebbe anche le nazioni vicine, alcune delle quali sono molto amiche dell’Occidente.

Il reattore 4 di Chernobyl in fiamme

– Attacco “interno” al reattore: questo genere di attacco permetterebbe, in via teorica, di danneggiare gravemente il reattore, senza però intaccare l’integrità dei contenimenti. Se infatti le centrali iraniane sono state progettate secondo i moderni criteri di sicurezza, il nocciolo fuso può essere trattenuto all’interno dell’edificio reattore, senza gravi effetti sull’ambiente circostante, ma rendendo semplicemente inutilizzabili sia il reattore che gli edifici della centrale. Vorrebbe dunque dire l’aver creato il massimo e più duraturo danno, con il minimo effetto ambientale. Tuttavia, sarebbe una missione molto rischiosa: le centrali saranno sicuramente fortemente sorvegliate, e bisognerebbe arrivare direttamente al vessel che contiene il reattore nucleare, posizionare le cariche esplosive, ed uscire in tutta sicurezza. Sarebbe una missione simile a quella, celebre, effettuata duramente la II guerra mondiale presso la località norvegese di Telemark, ma con un grado di difficoltà nettamente più elevato. Si potrebbe inoltre sfruttare il lasso di tempo necessario al ricambio del combustibile nel reattore: l’assenza di combustibile irraggiato, infatti, avrebbe il doppio vantaggio di non arrecare alcun pericolo all’ambiente, né alle forze che dovranno effettuare il sabotaggio. Infatti, compiere una tale missione con combustibile irraggiato od addirittura “a reattore acceso”, sarebbe possibile ma praticamente suicida, a causa dell’elevata dose di radiazioni che si potrebbe ricevere.

– Attacco alla centrale ma non al reattore: in questa eventualità, i sistemi di sicurezza bloccherebbero la reazione di fissione del reattore, portandolo nel giro di alcuni giorni in cold shutdown, senza rischi ambientali dato che l’edificio-reattore verrebbe lasciato intatto. Viceversa, però, il danno non sarebbe così grave da pregiudicare l’utilizzo del sito, che potrebbe essere ricostruito e rimesso in funzione nel giro di pochi anni se non di pochi mesi; in sostanza, anche il ritardo causato al programma nucleare iraniano sarebbe minimo. Diversamente, se si sabotassero i sistemi di sicurezza, si potrebbe distruggere anche il reattore a causa della fusione del nocciolo: come al punto di cui sopra, però, bisognerebbe essere sicuri che l’impianto iraniano rispetti le moderne norme di sicurezza, per evitare gravi danni ambientali.

Concludendo, l’attacco agli impianti nucleari iraniani implica notevoli rischi ambientali: pericoli che non si limiterebbero all’area della struttura colpita, ma rischierebbero d’interessare con gravi effetti zone molto vaste, e di avere ricadute minori anche sui paesi circostanti (anche quelli filo-Occidentali del Golfo, nonché sulle truppe presenti in Afghanistan). Ovviamente, nessuna operazione militare è mai libera da rischi e problemi: qui, però, essi sono particolarmente gravosi. L’attacco può essere portato, come abbiamo visto, cercando di minimizzare i rischi ambientali (umani), ed al contempo massimizzando il danneggiamento del sito nucleare, se si impiegheranno in maniera oculata e combinata le forze speciali sul campo (all’interno dell’impianto da colpire) con le forze aeree pronte a distruggere le strutture che non contengono il combustibile nucleare.