Immigrazione e lavoro, oltre i luoghi comuni

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L’Unione Europea è oggi un pendolo che oscilla continuamente tra un problema e l’altro, sta vivendo una lunga crisi di idee, forse la peggiore dalla data della sua istituzione (l’UE di Maastricht, 1992). Tra i tanti problemi, però, è innegabile che quelli principali siano legati all’immigrazione e alla crisi economico-finanziaria. Oggi parleremo di lavoro e immigrazione, il tema che stiamo per trattare è di quelli veramente controversi, almeno per due ordini di motivi. Innanzitutto perchè in letteratura si trovano facilmente studi che sostengono tesi di posizioni opposte e in secondo luogo, ma decisamente più importante, perchè la narrativa che giunge al cittadino tramite media mainstream è totalmente polarizzata su una sola di queste tesi.

Prima di addentrarci nell’argomento, vale la pena compiere un passo indietro, ai tempi del referendum sulla Brexit. Durante la campagna elettorale, alcuni dei temi utilizzati erano proprio legati a lavoro e immigrazione, di più, il tema era quanto lavoro gli immigrati potessero portare via ai “nativi” (d’ora in poi utilizzeremo questo termine per semplificare il concetto che individua chi già “preesisteva” ai flussi migratori). Dunque, semplificando, chi era a favore della fuoriuscita dell’UK dall’Europa aveva tra le varie preoccupazioni quella legata alla riduzione del lavoro a causa degli immigrati. D’altro canto chi era contro la Brexit sosteneva che tale paura fosse dettata solo da xenofobia e populismo.

Ritorniamo ai giorni nostri e qui in Italia. Cambiate nomi e luoghi, ma ponete le stesse domande. “Gli stranieri sottraggono lavoro ai nativi?”: quali risposte otterrete? Da un lato, troverete persone estremamente preoccupate per il proprio posto di lavoro, dall’altro lato troverete invece un fuoco di fila che li accuserà di xenofobia e populismo.

In ultima analisi possiamo sostenere, senza tema di smentita, che in Europa la percezione che l’immigrato possa “rubare” posti di lavoro sia ampiamente diffusa e radicata. A torto o a ragione? Questo è proprio il tema centrale del nostro ragionamento. Se ci attenessimo alla sola informazione veicolata in questi anni dai media principali, saremmo portati a rispondervi: “No, gli immigrati non portano via posti di lavoro perchè si collocano in nicchie residuali che i nativi non vogliono più occupare”. Quante volte avete sentito fornire spiegazioni di questo tipo? Probabilmente la risposta è “sempre”, al contrario non si è mai sentita una narrazione diversa (nemmeno “contraria”). Ci si chiede a questo punto se sia veramente così, ovvero se i lavoratori nativi si posizionino in aree diverse del mercato del lavoro, senza entrare in conflitto con gli immigrati.

Al fine di dare una risposta più precisa, l’Europa va divisa in due (come al solito): l’Europa del Nord e l’Europa periferica, quella del Sud. Come vedremo tra poco a parità di fenomeno otterremo due risultati diversi. Se andiamo a prendere il dato relativo ad occupazione e tasso di attività e lo andiamo a disaggregare tra nativi ed extracomunitari (con permesso di soggiorno) i dati sono a dir poco inaspettati. Nell’aggregato per età più ampio a disposizione (20-64) ecco cosa accade in Germania: i nativi attivi ammontano all’83%, gli extra-comunitari invece arrivano al 65% (dati 2015). Cosa accade in Italia è di seguito riportato: i nativi attivi costituiscono il 68%, gli extra-comunitari il 73%. Dunque in Italia registriamo un gap tra nativi e immigrati non comunitari pari a 5 punti percentuali, a favore di questi ultimi (solo nel 2007 il gap era addirittura di nove punti percentuali, sempre a favore degli immigrati non comunitari).

L’Italia è in buona compagnia, infatti registriamo dinamiche simili anche in Spagna, Grecia e Portogallo (in ogni caso, nessuno raggiunge i livelli italiani). Per converso, nel nord Europa troviamo paesi come Svezia, Olanda e Finlandia dove il gap a favore dei nativi supera abbondantemente il 10%.

Questo motiva quanto detto poco sopra: l’Europa va divisa in due, sebbene il sentimento espresso dagli inglesi con la Brexit sia piuttosto ubiquitario in Europa. L’avversione al lavoratore straniero va dunque separata in due diversi sentimenti dominanti.

Nel nord Europa, dove i nativi sono più occupati rispetto agli stranieri, il sentimento di avversione per i non comunitari è legato al profondo e radicato sistema di sussidi e protezioni sociali. Nel caso del nord Europa i nativi temono lo sfruttamento di questi sussidi da parte del lavoratore straniero, non temono invece per il proprio posto di lavoro. Nel sud Europa la situazione è totalmente diversa. In Italia, in assenza della fitta e consolidata rete di sussidi, chi ambisce ad un reddito necessita di accettare quanto il mercato ha da offrire e questa è la prima di due componenti che stanno trascinando verso il basso le retribuzioni nel nostro paese. In altre parole, chi è in cerca di occupazione in Italia è disposto a lavorare a qualsiasi prezzo, pur di lavorare, dal momento che non ha altre forme di formazione del reddito.

Quindi, accettare quanto il mercato ha da offrire ma anche, offrire quanto il mercato è disposto ad accettare. E qui entra in gioco la seconda componente che sta trascinando al ribasso retribuzioni ed occupazione dei nativi: la formazione e la preparazione del lavoratore.

I paesi del nord Europa hanno tassi di scolarizzazione nettamente superiori al sud Europa e questo ha fatto sì che il mercato del lavoro si strutturasse in modo tale da accogliere una offerta di lavoratori “più istruiti” e specializzati. Il tasso di laureati e diplomati è sempre stato il tallone d’Achille in Italia e il mercato del lavoro si è conseguentemente, lentamente, adattato. Siamo diventati ormai esportatori netti di laureati che nel mercato del lavoro domestico non trovano una collocazione soddisfacente. Siamo invece diventati importatori netti di manodopera a basso livello di specializzazione e scolarità e dunque disposta a lavorare con retribuzioni inferiori.

Italia, Spagna, Portogallo e Grecia importano lavoratori stranieri non diplomati per percentuali superiori al 40%. In Italia gli stranieri laureati sono poco più del 10%, in Svezia più del 30%. E qui arriviamo al termine di questa lunga digressione. Ora abbiamo gli elementi per rispondere alla domanda se i lavoratori extra-comunitari entrino o meno in conflitto con i nativi nel mercato del lavoro. La risposta è: dipende in quale parte d’Europa viviamo. Nel sud Europa è proprio così: la bassa protezione sociale (sussidi) e i bassi livelli di scolarizzazione pongono i nativi in diretta competizione con i lavoratori stranieri. E si tratta sempre di lavori a basso contenuto di specializzazione e a bassa / bassissima retribuzione oraria.

Fonti

Econ1 Analista economico, si occupa principalmente di temi macroeconomici, Europa, Cina, Cinafrica. Economia dello sviluppo e temi di economia ambientale. Contattabile via mail (in calce).

Comment(1)

  1. Lavoro in una fabbrica metalmeccanica e purtroppo vedo tutti i giorni queste cose.
    Giovani italiani di 20 -25 con scolarizzazione bassa , con scarsissime conoscenze linguistiche e informatiche. Al contrario molti stranieri sono diplomati nel proprio paese , conoscono almeno 2 lingue e sanno come rapportarsi con Internet. A quasi 40 anni la cosa mi spaventa. Ed è vero che l’industria in generale si è adattata , poca formazione e specializzazione.

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