La Turchia del Sultano: tra controversie e prospettive

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Oggi diamo il benvenuto ad un nuovo autore del nostro sito, si chiama Alessio Marsili e tutto il nostro gruppo lo accoglie a braccia aperte
Retaggi storici, privilegiata posizione geografica, vantaggiosi interessi geostrategici ed energetici attribuiscono alla Turchia una straordinaria centralità geopolitica in un’area di costanti e pericolose tensioni. Ma oltre ad esser considerato mediorientale, la Sublime Porta è anche un Paese caucasico, balcanico, per certi versi asiatico, sicuramente mediterraneo, potenzialmente in grado di esercitare la propria influenza in più regioni simultaneamente e rivendicare un ruolo strategico globale. E’ profondamente errato relegare Ankara al mero “ponte di collegamento” tra occidente ed islam, che non renderebbe omaggio alle ingenti facoltà ed opportunità che la penisola anatolica possiede.
Quando Ahmet Davutoğlu – Ministro degli Esteri dal 2009 – universalmente considerato la mente dietro il risveglio e l’attivismo diplomatico della Sublime Porta, coniò la dottrina nota come “zero problemi con i vicini” la Turchia, sistemate le relazioni bilaterali con i paesi contigui, avrebbe dovuto agire su di una estesa area geografica come forza stabilizzatrice e moderatrice. Non molto velata dietro suddetta politica vi era l’ambizione di divenire una potenza dominante a livello regionale. Quanto conseguito alla fine della prima decade del 2000 dall’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Erdogan che andava da una vittoria elettorale ad un’altra, era notevole: rapida crescita economica, riforme strutturali, trasformazione di Istanbul in un hub internazionale, implementazione di maggior controllo sull’intero apparato militare. Membro NATO dal 1952 e detenente il secondo esercito per ampiezza dell’intera Alleanza, con una crescita di quattro punti percentuali l’economica turca è tra quelle di maggior slancio tra i membri del G20.
Nel giro di pochi anni, però, Ankara si trovò spiazzata ed internazionalmente isolata a causa di un innumerevole serie di errori: dapprima la rottura delle relazioni diplomatiche con lo storico alleato Israele – la Turchia fu il primo Paese a maggioranza musulmana a riconoscere Gerusalemme nel lontano 1949 – a seguito della condanna alla gestione israeliana del conflitto di Gaza nel 2008/09 e di alcuni gravi incidenti (il più noto è quello della nave Mavi Marmara dove furono uccisi una decina di cittadini turchi disarmati dalle forze speciali israeliane in un raid a bordo); l’incondizionato supporto alla Primavera Araba egiziana e alla Fratellanza Musulmana, la quale intravedeva nell’AKP oltre che un modello un potente partner con il conseguente deterioramento dei rapporti turco-egiziano a seguito della deposizione di Morsi. Prioritario per la Turchia è ricucire al più presto i rapporti con i due antichi alleati. Se non agevoli si presentano le trattative con Israele – che potrebbero offrire la possibilità lucrativa di costruire un gasdotto attraverso il Mediterraneo orientale e l’isola di Cipro -, nonostante i media della Sublime Porta si dichiarino ottimisti circa la risoluzione delle controversie, di elevata difficoltà sono le negoziazioni con Il Cairo. Certo, sia Davutoğlu che Erdogan farebbero a meno di instaurare regolari relazioni diplomatiche con i militari al potere in Egitto, soprattutto in relazione alle vivaci proteste contro il colpo di stato; ma la fine delle sanzioni all’Iran, pericoloso avversario nell’area, e la volontà di Ankara di creare una forte alleanza – strumentale all’implementazione di un omogeneo blocco sunnita – con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo (come il Qatar, dove la Turchia installerà una propria base navale), non può prescindere dall’alleanza con Il Cairo.
La chiave di volta che fece tramontare il grande disegno mediorientale del “Sultano” fu la situazione siriana. Molto spesso ci si dimentica che, in quello che il governo di Ankara considera il “giardino di casa”, la Siria, una stretta alleanza – anche personale – vedeva protagonisti Erdogan e Assad; solo quando il Presidente siriano diede l’ordine alle truppe governative di sedare brutalmente le proteste, la crisi prese il sopravvento- d’altronde avrebbe fatto molto comodo alla Turchia veder sostituito Assad con un fantoccio amico sunnita. Va letta in questo senso, la disastrosa politica di lassismo circa i quotidiani viaggi volutamente lasciati impuniti dei foreign fighters attraverso il territorio anatolico per giungere nel nord della Siria ed unirsi ai combattimenti, radicalizzando il fronte di opposizione e creando tensioni con Unione Europea e Stati Uniti – in questo confuso contesto, a beneficiarne fu inevitabilmente l’attore preponderante, ovvero l’Isis.
Non può esser tralasciato un aspetto fondamentale: il potenziamento della minoranza curda è una delle dirette conseguenze della spirale di caos in cui si trova Damasco. Se per gli alleati occidentali e gli Stati Uniti l’obiettivo primario è sconfiggere l’Isis, Ankara punta al rovesciamento del regime di Assad ed impedire il rafforzamento e l’acquisizione di autonomia da parte dei Curdi, che mettono storicamente in pericolo la stabilità della regione turca del sud est. Bisogna esser chiari a riguardo: l’autoproclamatosi Stato Islamico non pone una minaccia geopolitica delle stesse proporzioni del PKK. Quest’ultimo, se capace di creare un forte movimento secessionista, congiuntamente alle minoranze presenti in Iraq e nell’Iran, potrebbe portare ad un partizionamento della Turchia Sudorientale; ne conseguirebbe la nascita di un nuovo Stato-Nazione dagli indefiniti poteri. Ovviamente la probabilità di conseguire l’autodeterminazione è minima: eppure c’è, e dal punto di vista di Ankara deve essere gestita con gli strumenti ritenuti necessari, nei quali rientra anche l’utilizzo della coercizione – senza entrare nel merito se sia giusto o sbagliato, ad ognuno le dovute considerazioni. Seppur assai arduo sia sconfiggere definitivamente il PKK e la resistenza interna, Erdogan può seminare di insidie il conseguimento dei suoi obiettivi e rendere la violenza domestica impotente: è per questo che sta circoscrivendo la democrazia liberale turca, dal suo punto di vista non irragionevolmente.
Sì, perché spesso al Presidente della Repubblica vengono attribuiti epiteti bizzarri, da folle a dittatore – lasciando trapelare una sorta di incomprensione per le necessità e le politiche da egli lanciate. Erdogan non è matto. E’ sicuramente autoritario in alcuni aspetti dell’esercizio delle sue funzioni – come d’altronde il consolidamento del suo potere nel corso degli anni palesa -, ma egli è un’abile calcolatore e comprende la situazione geopolitica della Turchia perfettamente. Considerato partner NATO inaffidabile, il suo Paese non è pronto ad affrontare avventure militari all’estero ma è allo stesso tempo immune da attacchi stranieri; ne consegue che l’intero apparato bellico e poliziesco può votare tempo e risorse alla risoluzione delle interconnesse problematiche domestiche, fra cui i rapporti con i Curdi e l’accentramento del potere esecutivo nelle mani della Presidenza della Repubblica attraverso l’approvazione di una riforma costituzionale. Fra le cose che possono essere imputate ad Erdogan, la più grave è indubbiamente la sua eccessiva onnipresenza ed inalienabile condizione che fanno della politica estera il prodotto della sua visione, dei suoi ambiziosi e spesso irrealizzabili progetti, dei suoi capricci, che nel corso di questi anni hanno causato degli innumerevoli alti e bassi.

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