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Israele e Emirati, un accordo per la pace può farne nascere un altro

Geopolitica

Il 13 agosto del 2020 sarà una data che verrà scritta nei libri di storia. Alla stregua del 26 marzo 1979 quando l’Egitto di Anwar Sadat e l’Israele di Menachem Begin firmarono l’accordo di pace mettendo fine allo stato di guerra che perdurava dal 1948. Analogamente il 26 ottobre 1994, Re Hussein di Giordania e  Yitzhak Rabin compivano lo stesso passo. 

Entrambi gli accordi di pace si basavano su un compromesso con al centro delle controversie la terra e il reciproco riconoscimento. Israele con l’Egitto accettò di ritirarsi dal Sinai preso durante la guerra dei 6 giorni, l’Egitto da parte sua accettò di lasciare l’area smilitarizzata e fare circolare le navi nel Golfo di Aqaba attraverso gli stretti di Tiran e di permettere il libero transito del Canale di Suez delle navi israeliane. La Giordania con Israele metteva fine alla controversia sull’acqua dei fiumi Giordano e Yarmuk  con un accordo dettagliato sulla condivisione dell’acqua e sui trasferimenti stagionali attraverso i confini, ma all’interno del bacino contrariamente a quanto accadeva in precedenza con lo sfruttamento unilaterale da ambo le parti causando un danno ambientale e mettendo a rischio il fragile equilibrio idrico. Il compromesso territoriale invece comprendeva la zona Nahyarim/Baqura e  l’area Zofar / Al-Ghamhr. 

Ieri 13 agosto, l’accordo di pace siglato tra il Primo Ministro Benyamin Netanyahu e il Principe erediatario Mohamed bin Zayed arriva alla fine di un lungo percorso nonostante entrambi paesi non fossero in guerra tra di loro. Non ci sono quindi trattative riguardo a delle frontiere comune ma anche questo accordo porta avanti un compromesso territoriale: la sospensione dell’annessione di una parte della Giudea-Samaria come condizione sine qua non per avere un mutuo riconoscimento e l’instaurazione di vere relazioni diplomatiche. Dal 2015, lo stato ebraico ha una rappresentanza diplomatica presso l’ Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA) che ha sede a Masdar City . I primi segni di distensione ufficiale sono stati l’arrivo di inviati israeliani e turchi che sono volati ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti per tenere colloqui segreti sul ripristino delle relazioni diplomatiche dopo gli eventi della Mavi Marmara nel 2018. La diplomazia dello sport ha fatto il resto quando ciò che non “esisteva” fece la sua apparizione sugli schermi televisivi degli Emirati: la bandiera e l’inno israeliano, l’Hatikva, risuonava nelle case emiratine con la vittoria della medaglia d’oro del judoka Sagi Aharon Muki durante il Judo Grand Competition, presente il ministro dello sport israeliano Miriam Regev. Non da meno e per ultimo di questi piccoli passi dopo quelli  in ambito militare con le esercitazioni congiunte negli Stati Uniti e Grecia dal 2016, l’annuncio a giugno della cooperazione nel quadro della lotta al Covid-19. Nei prossimi mesi, si dovrebbe assistere quindi ad una normalizzazione completa dei rapporti tra i due paesi mediorientali.


Ma è l’Arabia Saudita il paese che ora deve scegliere da che parte stare nella storia del Medio Oriente e non solo. L’Arabia Saudita vero cuore economico e religioso (insieme all’Egitto) del mondo mussulmano sunnita, il paese con le più grandi riserve di idrocarburi, luogo che ospita due dei tre luoghi più sacri per l’Islam, Mecca e Medina, paese che si proietta sul mar rosso ed il Golfo persico, vero ponte tra Oriente ed Occidente. L’Arabia Saudita il suo percorso di evoluzione, sociale, politica, economica, religioso e militare lo ha iniziato molti anni fa nei primi anni 2000, dopo la caduta di Saddam Hussein ed il crollo di quella Al Qaida, targata Osama Bin Laden, che aveva come primo obiettivo proprio il trono dei Saud. 
Da quel 2001 tanto è cambiato, il ruolo della donna, la riduzione della dipendenza americana dal petrolio saudita, il cambio radicale nella gerarchia ereditaria del Regno, la modernizzazione delle forze armate ora in grado di combattere autonomamente. In particolare vogliamo soffermarci su quello che risulta essere l’importanza strategica dell’Arabia Saudita per gli Stati Uniti. Per tutta la guerra fredda i Saud hanno rappresentato il distributore di petrolio degli USA e di gran parte dell’Occidente, poi con il passare degli anni questa dipendenza è andata via via scemando, fino a quando con la tecniche di fracking gli Usa sono diventati addirittura esportatori di greggio. Questo cambio di prospettiva rende l’Arabia Saudita non più così cruciale nelle scelte strategiche americane, tuttavia il sorgere di un Iran pesantemente armato e pronto a dotarsi dell’arma atomic a ha rivitalizzato l’interesse americano nei Saud. È evidente però a tutti noi che nel caso in cui gli Stati Uniti tornassero al tavolo della trattativa con l’Iran, i sauditi sarebbero nuovamente sacrificabili. Ecco che oggi, con il petrolio arabo non più indispensabile agli USA sia naturale per Riyad cercare nella regione un alleato che mai vedrà gli ayatollah iraniani come possibili alleati. 
Tutto questo ragionamento vale e continua a valere se la stabilità di linea politica saudita sarà mantenuta ed è per questo motivo che vi parliamo del radicale cambio di modalità di successione messo in atto da sovrano saudita. Fino  a pochi mesi fa, per tradizione, l’erede al trono, che viene nominato dal Re in persona era un suo fratello. S.A.R Salman Bin Adbulaziz Al Saud ha stravolto questa tradizione e nominato erede al trono suo figlio Mohammed. Questa scelta è stata accompagnata inevitabilmente da purghe interne degli oppositori del Re, i quali non accettavano il fatto di essere estromessi dalla linea di successione. La rivoluzione di Re Salman fa sì che da oggi in poi la linea apolitica di Riyad sia molto più prevedibile e molto meno soggetta a cambiamenti di fronte determinati dall’incertezza derivante dai repentini ad improvvisi cambi relativi al nome dell’erede al trono.  
Forse cari amici e lettori, alla fine di questa analisi possiamo dire che Riyad abbia già scelto dove posizionarsi, ha già scelto la strada della modernità, dei diritti della popolazione, dello sviluppo e miglioramento della società che guarderà alla salvaguardia della vita e non al martirio e alla morte come massima aspirazione dell’uomo.