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I Processi di Democratizzazione

Il processo di democratizzazione è un argomento molto complesso. Complessità che deriva non solo dalla definizione che si vuole dare della parola democrazia, dibattito ancora acceso, ma anche sulla teorizzazione circa le cause, i fattori determinanti, gli attori che innescano il passaggio da un regime autoritario ad uno più democratico. Persino in quest’ultimo caso, vi è una diatriba sull’opportunità di considerare certi regimi, “di transizione” verso uno pienamente democratico, la cosìddetta Poliarchia di Dahl, o se bisogna considerarlo invece un nuovo regime autoritario, con soltanto dei “ritocchi cosmetici” per avere legittimità dinanzi a coloro che richiedono riforme in tale direzione; diatriba questa che nasce da un’altra discordia tra gli studiosi: quella sul tempo necessario affinchè un processo di democratizzazione si assesti, con dati reali inconclusivi, avendo situazioni come quella dell’Europa Centro-Orientale dove la democrazia ha preso piede in tempi relativamente veloci, e altri ancora nei quali dopo decenni si mantiene lo status-quo; ciò ovviamente non esclude la possibilità che trasformazioni verso regimi democratici avvengano in futuro, ma la discussione perne sull’opportunità nel considerare tali regimi di “transizione”.

Da un punto di vista prettamente scientifico si può fare un’analisi delle caratteristiche fondamentali che influenzano sia l’avvio di un processo democratico, che la probabilità che questo abbia un esito positivo, inteso perlomeno nella conquista di alcuni diritti civili e politici fondamentali, che pur non essendo di per sè sufficienti a dichiarare un’avvenuta democratizzazione, rappresentano spazi concreti sui quali si possono fondare ulteriori movimenti di espansione democratica.

 

Vi è poi un’altra possibilità: che in realtà lo sviluppo socioeconomico non sia la variabile da prendere in considerazione, ma la crisi dello sviluppo: in America latina le più recenti democratizzazioni avvengono durante un periodo di gravi difficoltà economiche, com ‘è stato anche il caso dei Paesi dell’est Europeo e dell’ex Unione Sovietica. In Polonia e Ungheria la riduzione dei salari e del PIL hanno portato a domande di drastiche riforme economiche che hanno preparato il sistema comunista alla radicale trasformazione dell’89.  Situazione analoga per l’Africa Sub-sahariana, una regione dove la povertà è molto diffusa: tra il 1975 e il 1995 le economie locali, assieme al reddito, subiscono contrazioni spesso imprevedibili, instabilità che ha provocato una profonda crisi tra i regimi autoritari, diffondendo prospettive di riforma politica in senso democratico.  Inoltre i Paesi che tra il 1990 e il 2004 hanno migliorato il proprio status democratico, hanno sperimentato crescita quasi nulla, simile a quella dei Paesi dove la situazione è peggiorata. La crisi sviluppa malcontento verso il regime, autoritario o democratico, che spinge quindi o verso democratizzazioni o verso un riflusso in autoritarismi. Przewoski sembra confermare tale linea di pensiero, affermando che le crisi economiche, specie se prolungate nel tempo, sembrano correlate con una crisi della democrazia o con uno scadimento della sua performance, così crisi nel regime diventano crisi di regime. Inoltre, nonostante spesso i Paesi con i maggior indici di sviluppo socioeconomico siano anche quelli con il maggior tasso di democratizzazione le eccezioni alla regola sembrano molto, se non troppo, numerose: la Bolivia con un livello di reddito decisamente interiore alla soglia della “zona grigia” e con un indice di sviluppo umano tra i più bassi della regione, riesce a mantenere un regime democratico. O, dal lato opposto, Cuba, uno dei pochi regimi autoritari veritieri della regione, ha livelli di reddito e di sviluppo umano tra i più alti della regione, e la democrazia stenta ad inserirsi. Stessa situazione nell’Eurasia per Paesi come la Bielorussia o il Kazakistan, o ancora come per la Russia che può vantare livelli di reddito comparabile ai Paesi Baltici ma con scarso rendimento democratico. Simile discorso si può sostenere per Paesi Asiatici come la Malaysia, Sultanato del  Brunei che hanno ottimi livelli di sviluppo socioeconomico ma sicuramente non sono democratici, o dall’altro lato, Paesi poveri come la Mongolia, Bangladesh e soprattutto l’India, dove buoni livelli di democrazia sono stati stabiliti e mantenuti.

 

 

Ciò che spiega il miglior rendimento dei parlamentarismi, e anche le eccezioni, come la Malaysia e fino a tempi recenti, Singapore, regimi essenzialmente liberticidi, riguarda il loro ruolo: più ampi i poteri concessi ai Parlamenti, in particolare nei rapporti con il Presidente, più forti tendono a essere i partiti e i sistemi partitici, e anche migliore la tutela delle principali libertà. Tuttavia, spesso le architetture politiche assumono valori diversi rispetto all’originario modello occidentale, per un intreccio tra forme democratiche e preesistenti strutture di potere.

 

 

Inoltre la società civile è risultata indispensabile nel momento dell’istaurazione democratica nei Paesi dell’Europa Centro-Orientale,  dove la trasformazione politica è stata avviata da vaste mobilitazioni popolari, e similmente nei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, dove dal 1990 sono cresciute in numero le manifestazioni per governi più trasparenti, responsabili e democratici, che andavano di pari passo con l’affermazione dei diritti civili e politici prima negati. Lo stesso si può dire dell’area Asiatica, dove boicottaggi, scioperi, dimostrazioni organizzati per chiedere il riconoscimento dei principali diritti politici, hanno messo in marcia il processo di liberalizzazione che è poi sfociato nella democratizzazione. Tuttavia, se le mobilitazioni assumono caratteri nazionalistici, l’esito potrebbe essere contrastante: se la mobilitazione nazionalista avviene contemporaneamente o successivamente alla disgregazione del vecchio regime, la transizione democratica sarà più facile e il nuovo regime più stabile. Se invece le proteste esplodono prima della crisi politica, allora seguirà una crisi democratica o la transizione sarà ritardata. È il caso dell’Armenia, Croazia, Georgia, Kosovo, Sovacchia e Serbia.

 

La parte islamica invece della popolazione africana non mette in contraddizione questo principio, essendo, come religione, perfettamente compatibile con l’affermazione dei regimi democratici in Paesi come Senegal o Mali, dove esiste una relazione aperta tra fede islamica e società civile, caratterizzata da modelli di reciprocità, fiducia e solidarietà sociale. Anche in Paesi come la Turchia, Algeria, Marocco, Giordania, Egitto la forte identificazione con l’islam ha un impatto limitato, in quanto i valori della democrazia, che pur appaiono relativamente fragili, vengono apprezzati dalle opinioni di coloro che frequentano le moschee. La stessa situazione la si trova nell’Asia, dove il Confucianesimo, con il suo desiderio di armonia sociale e forte autorità centrale, non ha impedito il processo di democratizzazione in Paesi come il Taiwan o Corea del Sud. Sull’altro lato della medaglia, il Buddismo che gode di fama per essere basato sull’illuminazione etica e una robusta uguaglianza, è la religione domninante in Paesi come la Cambogia, Vietnam, Laos e Birmania. In Thailandia, il Sangha nazionale, l’ordine buddista ufficiale, collabora attivamente legittimando l’autorità politica, e il dissenso interno è puntualmente estirpato.

 

 

 

 

Si possono considerare i fattori internazionali anche da un punto di vista storico: la fine della guerra fredda ha affermato l’immagine primeggiante della democrazia nel mondo, con la crisi del modello alternativo comunista, oppure ancora per l’esperienza coloniale nei Paesi Africani, Medio-Orientali e Asiatici, che ha fortemente influenzato le chance di radicamento di istituzioni e pratiche democratiche, sia per il lascito di una geografia politica imposta dalle potenze occidentali del tutto aliena alle caratteristiche delle società locali che per la rapida concessione dell’indipendenza, senza che potessero maturare la formazione e l’esperienza necessaria al buon funzionamento di apparati statali moderni e una maggiore familiarità con le elezioni e le forme di governo.

Considerare qualsiasi di questi fattori predominante in un processo di democratizzazione è oltre che riduttivo, anche inopportuno. La complessità dello studio dei questi processi deriva dall’influenza che ciascuno di questi fattori esercita non solo sul processo, ma anche tra di loro, con diversi gradi di intensità che varia a seconda del contesto considerato. ( guardare lo schema dimostrativo ma non esaustivo in quanto basato solo sui dati disponibili in queste pagine ).

Questa complessità viene poi ulteriormente acuita dall’esistenza di una serie di elementi locali, siano essi di carattere regionale o anche a livello di singoli Paesi.  Come esempi validi, si possono nominare la crisi d’identità dei partiti nei regimi post-autoritari, caratteristica con potenzialità di generalizzazione, viene meno nei Paesi dell’Europa Centro-Orientale proprio in virtù dell’adesione all’UE, dove il dovuto collocamento nelle grandi famiglie partitiche europee è passato dapprima per una visione pragmatica, nel senso  di alleanze con partiti influenti all’interno del Parlamento europeo, e che ora si sta livellando su posizioni di congruenza di identità partitica. Ciò ovviamente non può essere il caso di sistemi partitici in altri continenti.  Oppure considerazioni riguardanti la società civile africana, che non può svolgere un ruolo analogo a quello svolto nell’est europeo o nell’america latina, non solo per l’alto tasso di povertà ma anche perchè vi è un disicanto che deriverebbe dall’esclusione dai benefici del cambio politico, intimamente legata alla storia della regione.  La democrazia in certi Paesi come il Mali, o l’India sono spiegabili attraverso elementi locali, dove nel primo vi è la presenza di una cultura tradizionale in cui prevalgono elementi di fiducia reciproca, tolleranza, pluralismo, una certa separazione dei poteri e la responsabilità dei leader nei confronti dei governanti, tutti elementi che di una democrazia costituiscono un presupposto importante, mentre in India cruciale fu la presenza di una comunità economica e commerciale locale che durante il dominio britannico favorì la creazione e lo sviluppo di associazioni e gruppi d’interesse.

Però l’elemento locale che ha differenziato nettamente una regione rispetto alle altre, è la presenza di ingenti quantità di petrolio nel Nord Africa e nel Medio- Oriente. Le forme politiche tradizionali sono sostenute dalla ricchezza proveniente dal petrolio, che permette la diffusione di un cospicuo benessere tra la popolazione, smorzando istanze di una maggiore partecipazione, ulteriormente indebolita dall’autofinanziamento dello Stato derivante dalla svendita di petrolio, a cui corrisponde una bassissima pressione fiscale che fa venir meno il principio “no taxation without representation”. Essendo lo Stato il detentore delle possibilità di riuscita o fallimento economico, prevale nell’area il modello di ristrette cerchie politiche e ociali che amministrano le risorse di cui dispongono, ricchezze naturali o aiuti internazionali, per gestire un’elaborata rete di relazioni clientelari rafforzando una posizione di sostanziale predominio. 

I limiti del paradigma dei processi di democratizzazione deriverebbero proprio dall’enorme complessità della materia. A differenza delle scienze naturali, viene molti difficile, se non addirittura impossibile prima di tutto isolare certi fenomeni tentando di ricavarne una generalizzazione, e secondo, non solo cogliere tutti i possibili intrecci tra le variabili indipendenti, dipendenti e intervenienti, ma individuare tutte le possibili variabili del fenomeno. Del resto la diversità, l’ingenuità e la sorpresa è ciò che distingue la coscienza umana dalla materia, ed è anche ciò che rende la vita degli scienziati politici più difficile di quella delle loro controparti naturalistiche, l’elemento sicuramente meno scientifico possibile, quello umano.

Questi sono i motivi per i quali una teoria generale della democratizzazione è lontana dall’orizzonte. Per poterne cogliere almeno le caratteristiche più diffuse e più rilevanti, si dovrebbe effettuare una ricerca a livello mondiale, dove ogni team sia presente in ciascun Paese per esaminare in dettaglio le caratteristiche locali. E una volta completate tali ricerche, si potrebbe tentare di dedurre i trend comuni a tutte le regioni. L’incompletezza della matera è stata visibile sia nella previsione della possibilità che la democrazia insorga in certi Paesi, ( le troppe eccezioni alle varie teorie attualmente in voga, ma questo è un giudizio altamente soggettivo ), la previsione di un’assoluta impossibilità per una democratizzazione dell’Est-Europeo per tutti i politologi ed esperti nell’occidente prima dell’arrivo di Gorbaciov, tra i quali Hungtington stesso, e come conclusione, la mancata previsione della “primavera arba”, che alcuni considerano già oggi la quarta ondata di democratizzazione. I presupposti nella materia esistevano: si era notato che negli ultimi decenni, l’autoritarismo assoluto ha rappresentato un’eccezione tra i paesi dell’area, mentre erano più comuni i regimi autoritar nei quali a momenti di chiusura politica ne sono succeduti altri di maggiore libetà. Si era notato che il commercio con le democrazie economicamente più sviluppate era aumentato, così come l’esposizione ai media occidentali, come la vicinanza geografica con l’Europa aveva giovato all’emigrazione e all’educazione delle èlite. Si dava molto peso alla mancanza della classe media indipendente,  all’autonomia che il governo aveva assunto dalla società civile grazie alle ricchezze del petrolio. Si erano sottovalutate le cosiddette “khubz”, rivolte del pane, esplose una volta che la tradizionale giustificazione degli stati autoritari di essere la premessa per uno sviluppo socioecnomico era venuta meno, facendo aumentare vertinigiosamente le domande per liberalizzazioni. Si erano inoltre sottovalutate anche la precarietà sociale e lavorativa dei più giovani che il sistema educativo continuava a formare, le cui condizioni peggiorarono con la crisi economica e con l’aumento straordinario dei prezzi dei beni di sussistenza. Per tutto questo, si era previsto sì, un miglioramento possibile nel futuro della regione, ma non certo in tempi brevi o medi.

Il rapporto della Freedom House 2012 cita: “ In una regione che sembrava sostanzialmente immune alla democrazia, due Paesi con una storia ininterrotta di elezioni fraudolenti, hanno svolto elezioni ritenute da osservatori internazionali, corrette e libere, la Tunisia e l’Egitto.” Tuttavia l’onda di proteste partita dalla Tunisia, ha incontrato la decisiva e rapida risposta dei regimi autoritari che hanno reso il costo della partecipazione disumanamente alto, con l’esempio di spicco la Siria. Inoltre l’ondata non ha caratterizzato solo questa regione ma è arrivata persino in Cina, testimonianza forse della progressiva interconnessione e interdipendenza dovuti alla globalizzazione e alla rete, che ha prontamente reagito con arresti massicci, detenzioni, censura sia dei media ma soprattutto di internet. Persino la Russia ha bombardato la popolazione con messaggi di una terribile instabilità della regione in seguito a questi episodi. Da questo processo di azione-reazione tra proteste e risposte dei regimi, l’anno 2011 globalmente registra per la Freedom House una perdita di libertà nei confronti degli autoritarismi. Rimane solo da vedere come i vari fattori summenzionati influenzeranno l’andamento degli eventi, quale avrà più peso, e in fin dei conti quali  porteranno verso una democratizzazione. Perchè se c’è una generalizzazione che si può ( scientificamente o non ) fare, è che la democrazia è veramente lo Zeitgeist da oltre mezzosecolo.