L’Italia e il seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: successo o fallimento?

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Conseguentemente al termine del secondo conflitto globale, il governo di Roma, data la peculiarità della propria situazione, fu costretto ad impegnarsi molto internazionalmente per acquisire piena riabilitazione politico-giuridica nel consesso delle nazioni e per superare lo status di paese sconfitto come stabilito dal Trattato di pace – l’armistizio del ’43 e la co-belligeranza costituirono i punti di partenza di questo processo. L’ordine internazionale post-bellico, negli anni di maggior tensione della contrapposizione tra ideologie antinomiche, subì profondi repentini cambiamenti e la diplomazia italiana fu costretta ad agire in un contesto di montante bipolarismo, manifestatosi spesso anche nell’esercizio del diritto di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sull’ammissione di nuovi Paesi all’Organizzazione, che sfociò celermente nella formazione dei blocchi antagonisti. Nonostante la domanda ufficiale di ammissione all’Organizzazione delle Nazioni Unite fu avanzata il 7 maggio 1947, il reinserimento di Roma nella comunità internazionale non avrebbe potuto prescindere dall’architrave multilateralista, una dimensione dapprima europea ed atlantica e solo successivamente universale. Il 14 dicembre 1955, nel corso della stagione della “breve distensione”, a seguito della nascita del movimento dei Paesi non Allineati, in un contesto geopolitico radicalmente mutato che vedeva l’Italia schierata dalla parte del “mondo libero” tramite CECA e soprattutto NATO, il Tricolore venne issato per la prima volta al Palazzo di vetro di New York. In oltre sessant’anni di membership, l’Italia ha costantemente guardato alle Nazioni Unite come cardine dell’azione di politica estera e, non facendo mai mancare il proprio apporto, in conformità con i dettami della Costituzione repubblicana, con determinazione, dedizione e responsabilità prosegue l’impegno circa il perseguimento degli obiettivi della Carta: sviluppo sostenibile, tutela dei diritti umani, lotta per l’abolizione della pena di morte, politiche di genere e intenso sforzo in una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e combattere le mutilazioni genitali femminili nei paesi africani. Roma è il settimo contributore finanziario dell’Organizzazione, con una quota sul bilancio pari al 4,448%, ed il terzo polo dopo New York e Ginevra: nella capitale si trovano infatti FAO, PAM (Programma Alimentare Mondiale), IFAD (International Fund for Agricultural Development); a Torino è situato il centro di addestramento professionale, lo Staff Center. A Brindisi si trova la Base Logistica ONU, vero e proprio Centro Globale di Servizi che assicura il sostegno alle missioni delle Nazioni Unite in termini operativi, logistici e telecomunicativi, nonché la formazione e l’addestramento del personale impiegato in suddette missioni. Ed, infine, il Center of Excellence for Stability Police Units (COESPU), struttura destinata all’addestramento dei funzionari di polizia di tutto il mondo, che prestano servizio nelle missioni di pace, da parte dei Carabinieri, è a Vicenza. Proprio nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, nel Peacekeeping, il contributo di Roma è stato quello di maggior rilevanza nell’arco degli ultimi sei decenni, concorrendo al rafforzamento del multilateralismo nelle relazioni internazionali: l’Italia, ad oggi, rappresenta il primo paese contributore di caschi blu tra quelli occidentali, il sesto per finanziamento alle missioni di pace delle Nazioni Unite. Nelle 15 missioni di Peacekeeping in corso di svolgimento, che in 4 continenti prevedono il dispiegamento di circa 118.000 caschi blu, 8 coinvolgono militari che vestono il Tricolore per un totale di circa 1.100 uomini. Inoltre, la missione UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon), operante nel sud de Libano per mantenere una fragile pace in una regione tormentata da conflitti è efficacemente e brillantemente comandata da un italiano, il Generale Luciano Portolano – che segue alle esperienze positive dei Generali Claudio Graziano e Paolo Serra (raramente alle Nazioni Unite la leadership delle missioni viene reiteratamente affidata a ufficiali dello stesso Paese). E l’Italia è il promotore dei cosiddetti “caschi blu della cultura”, per proteggere da guerre e terrorismo patrimoni dell’umanità come Palmira. Insomma, l’Italia c’è e c’è sempre stata. Già membro non permanente del Consiglio di Sicurezza – l’organo responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – in sei precedenti occasioni, l’ultima delle quali nel 2007/08, il nostro Paese aveva presentato la propria candidatura ad un seggio nello stesso per il biennio 2017/18 nel lontano 2009, su espressa volontà dell’allora titolare della Farnesina Franco Frattini. Conformemente alle regole di rotazione, sulla base di interessi e regioni del globo, oltre ad un membro africano, sudamericano ed asiatico, l’Italia avrebbe dovuto vincere le candidature di Svezia ed Olanda – queste ultime inserite nel gruppo WEOG, Western European and Others Group. Nelle votazioni in Assemblea Generale il voto della più piccola isola-stato del pacifico vale tanto quanto quello di Cina e Stati Uniti: dunque, in questi ultimi mesi la diplomazia nostrana è stata straordinariamente attiva nella sua strategia fatta di incontri e proposte di collaborazione con i cosiddetti “micro stati”, con cui l’Italia ha una consolidata tradizione di aiuti e assistenza tecnica, talvolta dispensando perfino pressoché sconosciuti allenatori di calcio, con il fine ultimo di guadagnare il loro consenso. Le principali crisi del pianeta si svolgono in aree contigue all’Italia, se non la interessano direttamente: conquistare un seggio nel CdS, essendo Roma l’unico candidato mediterraneo sarebbe stato di estrema rilevanza per l’intera comunità internazionale. Giustamente, dunque, nel corso della votazione, il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, l’ambasciatore l’ambasciatore Cardi, il vice Lambertini e tutta la squadra dei diplomatici italiani sono passati tra i banchi a stringere mani, a scambiare commenti, cercare di consolidare i voti e conquistarne di ulteriori. La Svezia, primo Paese contributore finanziario pro capite dell’Organizzazione, ottiene rapidamente la maggioranza dei 2/3 dell’assemblea e viene eletta. Al ballottaggio, se necessario ad oltranza finché non viene superato il quorum dei 2/3, Italia ed Olanda ricevono un numero di suffragi insufficienti: alla quinta fumata nera, si rimane appaiati a 95 voti ciascuno. Nel frattempo, Bolivia, Kazakhstan ed Etiopia vengono eletti membri non permanenti per le altre aree del globo. Eccezion fatta per un numeroso blocco di paesi africani interessati ai progetti italiani di investimento e di cooperazione e quelli mediorientali, che da sempre apprezzano professionalità e competenze, capacità di ascolto, dialogo e mediazione, l’Europa si schiera omogeneamente con l’Olanda – presumibilmente a causa della tardività circa la presentazione della candidatura, quando già Stoccolma e l’Aja avevano annunciato la loro corsa – spezzando l’ambizione italiana di aumentare la propria influenza internazionale, e dichiaratamente europea, sui partner. Un’Europa miope e “nordica”, incapace di dar credito al costante impegno/sacrificio della Marina Militare italiana nel salvataggio di migranti, il lavoro nelle missioni di pace e la competenza nel Medio Oriente che coinvolgono direttamente od indirettamente l’intero Vecchio Continente. D’altronde, quale esperienza possono contare L’Aja (ed anche Stoccolma) nella gestione della crisi migranti? L’accordo che si trova tra i primi ministri dei due paesi, Renzi e Rutte, con l’assenso di Gentiloni e la controparte olandese è, dunque, storico: come accaduto tra Turchia e Polonia nel 1952 dopo ben 52 scrutini, Italia ed Olanda divideranno il mandato in Consiglio di Sicurezza, Roma 2017 l’Aja 2018. “Segnale di apprezzamento per entrambi i Paesi”, “Unità e solidarietà tra paesi europei”: le formule coniate dai vertici istituzionali sono state molte. Ma la soluzione escogitata, seppur creativa, è per l’Italia una cocente sconfitta diplomatica e strategica – neanche fossimo il fanalino di coda dell’Europa – proprio mentre a Roma si pensava che saremmo stati plebiscitariamente eletti al Consiglio di Sicurezza senza particolari problematiche (come accadde nel 1995/96 quando ottenemmo più voti della Germania). Certo, Svezia ed Olanda sono Paesi che da sempre si fanno promotori dello Stato di diritto e strenui, coerenti e determinati difensori dei diritti umani; ma, uno terzomondista e neutrale e l’altro atlantico filo-britannico, sono anche geograficamente e demograficamente circoscritti in un’area “di felicità” e ricchezza che le esonera in larga parte dalle conseguenze delle crisi globali. Le peculiari dinamiche dell’elezione per il CdS in Assemblea Generale non escludono scivoloni e voltagabbana, ma è chiaro che non sono pochi i Paesi che ci hanno voltato le spalle, con un’oggettiva miopia. La conclusione che possiamo trarre è che, grazie alla straordinaria competenza e all’apprezzamento che godono i nostri diplomatici al Palazzo di vetro, è stato compiuto un mezzo miracolo, ma la comunità internazionale ha bocciato la politica estera del nostro paese nonostante i proclami: il problema non è la qualità diplomazia ma la credibilità del Paese e dei suoi leader. L’Italia non ha una strategia globale coerente e le furbizie, le mezze misure e gli “ondeggiamenti” di certi politici italiani sono sempre meno apprezzati. Un risultato che rischia di macchiare oltre vent’anni di impegno italiano all’interno del CdS e nell’elaborazione della riforma di quest’ultimo, per la quale l’Italia si è molto spesa diplomaticamente. Dunque, l’Italia sederà nel Consiglio di Sicurezza nel 2017, anno fondamentale per la politica estera italiana: presidenza del G7 a Taormina e 60° anniversario dei Trattati di Roma.