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Israele Hamas: gli obiettivi di un conflitto.

Israele Hamas: gli obiettivi di un conflitto.

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7 ottobre 2023 ore 6:30 del mattino, ora di Gerusalemme: circa duemilacinquecento miliziani di Hamas, ben addestrati, ben motivati, ben equipaggiati, attaccano rapidamente in uno spazio multi-dominio le aree di confine con la Striscia di Gaza. L’operazione si svolge via terra con mezzi veloci adatti al deserto, via aria con parapendii a motore e droni di varia natura, via mare con gommoni veloci e nello spazio cyber con interferenze ai network di difesa delle forze armate israeliane (IDF), venendo preceduta da un attacco missilistico diversivo sulla parte centrale di Israele. Da quel momento Israele è in guerra, una guerra che non solo per essere vinta ma anche solo per essere combattuta deve avere degli “endpoint”, degli obiettivi, che i decisori politici devono indicare, anche se sarebbe meglio dire indicare e condividere, con i vertici militari e con la nazione. Per comprendere questi obiettivi, prima di tutto va analizzato lo schieramento militare che Israele ha messo in campo, come si è modificata la postura del suo principale alleato e cioè gli Stati Uniti d’America, comprendere chi sia Hamas, chi ne permette l’operatività economica politica e militare.

Dopo avere vinto le elezioni a Gaza nel 2006, Hamas nel 2007 decide di non condividere più il potere con Fatah dando vita ad un colpo di stato. Da quel momento, il non ancora nato stato arabo in Palestina è governato da due fazioni: Fatah nei territori della Cisgiordania e Hamas nella striscia di Gaza. Nonostante ciò, le relazioni con l’Autorità Palestinese, anche se ondivaghe, non vengono interrotte; per contro il governo di Hamas dà vita a pesanti attacchi contro lo stato ebraico nel 2008, 2009, 2012, 2014 ed infine l’attacco del 7 ottobre 2023. Per potere sopravvivere in assenza di risorse naturali e agricole, le autorità di Gaza dipendono dalla generosità di vari loro sponsor, dall’aiuto internazionale e dalla disponibilità delle merci che transitano attraverso i valichi di frontiera israeliani sotto l’autorità del COGAT. Il Qatar risulta essere in testa nella classifica degli sponsor statali di Hamas con l’emiro Sheik Hamad Bin Khalifa al-Thani, che è stato il primo capo di stato a visitare Gaza dopo il golpe del 2007. Finora l’Emirato qatariota ha fornito ad Hamas circa 2 miliardi di dollari sotto varie forme di aiuti, non secondario anche il ruolo della Turchia di Erdogan, sponsor e fornitore di aiuti ad Hamas ricorrendo spesso all’utilizzo di varie ONG. Un esempio clamoroso di questo impegno turco fu l’episodio della Mavi Marmara (31 maggio 2010), che tentò di rompere il blocco navale di Gaza, tentativo fallito per l’intervento della marina israeliana in acque internazionali ed il relativo abbordaggio dell’imbarcazione battente bandiera delle Comore e noleggiata da una ONG turca, episodio che deve far riflettere relativamente alle opzioni che anche oggi possiede Erdogan per farsi promotore di un sostegno al governo di Hamas a Gaza.

Alla luce degli ultimi eventi, anche se il legame tra la Repubblica Islamica dell’Iran e il gruppo terroristico Hamas non sembra diretto, il gruppo politico militare che governa Gaza ha beneficiato e beneficia di un importante back-up politico e logistico. Le relazioni tra Iran e Hamas non sono state lineari in passato e il sostegno indirizzato ad Hamas ha vissuto i suoi minimi durante il periodo della guerra civile siriana. Nel 2017 con la nomina di un nuovo leader della Fratellanza Mussulmana più favorevole al governo iraniano, Teheran ha mediato una riconciliazione tra la Siria di Al-Assad e Al Sinwar, per poi riavvicinarsi ad Hamas, fino ad arrivare a dichiarazioni roboanti da parte del capo delle forze aerospaziali delle Guardie della Rivoluzione Iraniana (IRGC) che ha dichiarato nel 2021: “Ogni missile di Hamas è stato progettato in Iran”. Questo rinvigorito matrimonio di interesse tra la potenza sciita e il gruppo sunnita, uniti nel progetto della distruzione dello stato ebraico, può essere messo in evidenza dalla tipologia di missili e droni utilizzati recentemente, come il drone Shahab, e l’evidente salto qualitativo della missilistica di Gaza, con l’aumento impressionante della precisione di alcuni modelli di razzi lanciati contro Israele.

Sul fronte prettamente militare Israele non combatte una guerra di ampia portata da cinquanta anni, da quel 1973, quando la guerra di Kippur scosse alle fondamenta le certezze di superiorità militare di Israele, le stesse certezze che sono state infrante il 7 ottobre dall’attacco di Hamas. In tempo di pace la forza attiva dell’esercito israeliano conta circa 150 mila uomini (e donne) in gran parte appartenenti alla leva militare obbligatoria. Oggi in stato di guerra la forza attiva dell’IDF è salita a circa 520 mila unità, con il richiamo di quasi 350 mila riservisti, sia residenti in Israele che all’estero. Quasi tutte le capacità di riserva delle forze corazzate sono state mobilitate ma non ancora dispiegate nei teatri operativi, mentre le capacità della marina e della difesa aerea sono state portate alla massima prontezza operativa e alla massima possibilità numerica di dispiegamento, con la simultanea richiesta agli Stati Uniti di fornire dalle loro riserve i missili Tamir, che vengono impiegati dal sistema antimissile Iron Dome, il quale è stato messo sotto forte pressione dai continui lanci che sono originati da Gaza, riducendo in maniera significativa le riserve a disposizione delle IDF. Tali riserve non sono cruciali per far fronte ad ulteriori lanci da parte di Hamas, ma saranno indispensabili nella prospettiva di un possibile ingresso nel conflitto delle milizie sciite libanesi, siriane, irachene, tutte in attesa del comando, o anche solo di un cenno, da parte della repubblica islamica dell’Iran, che in questo scenario di guerra svolge la funzione di guida sia per la parte sunnita che per la parte sciita dell’asse che ha come obiettivo l’eliminazione di Israele dalla mappa del Medio Oriente.

Tale progetto, che ha come bersaglio Israele, dopo anni di vuoto politico e militare in quell’arco di territori che viene definito la “mezzaluna sciita” (che comprende Iran, Irak, Siria, e Libano, l’Iran), è divenuto il crocevia delle decisioni strategiche delle fazioni paramilitari e statuali di questi paesi, distrutti dalle guerre e che non sono oggi in grado di esercitare una piena sovranità sull’interezza dei loro territori. La causa di questa limitata sovranità di Irak, Siria e Libano va ricercata nelle milizie sciite, che rispondono in tutto e per tutto alla Guida Suprema Iraniana, esercitano potere di veto su numerose scelte politiche e sono in grado di trascinare le nazioni dove operano in un eventuale conflitto regionale contro Israele. Le milizie in oggetto sono formate da uomini che hanno combattuto per anni nelle guerre della regione ed hanno a disposizione un arsenale di armi offensive in grado di infliggere danni consistenti alle infrastrutture civili e militari di Israele.

Hezbollah in Libano, Kata’ib Hezbollah in Irak, le cui milizie si dichiarano pronte ad affluire in forze in Siria, e le stesse Guardie della Rivoluzione che si trovano già a Damasco, hanno operato in questi anni per rafforzare i loro arsenali e le loro posizioni nella capitale siriana, a nord del Golan e nelle retrovie di Aleppo in attesa che la loro patria spirituale (ed economica) iraniana fosse in grado di assicurare loro un ombrello strategico protettivo acquisendo capacità nucleari militari, un obiettivo che l’Iran persegue caparbiamente, segretamente e prioritariamente da ormai venti anni. La bomba atomica iraniana sarebbe per queste formazioni, e ultimamente per l’Iran, la garanzia di poter condurre una vasta guerra per procura contro Israele mantenendo la capacità di replicare ad eventuali utilizzi di emergenza di armi di distruzione di massa da parte di Gerusalemme.

Anche dopo la descrizione relativa alla moltitudine di fronti che Israele potrebbe essere chiamata ad affrontare, si potrebbe valutare come eccessiva la risposta militare israeliana alla situazione in essere, ma così non è. Possiamo infatti evidenziare quale sia stata la scelta americana dopo il massacro del 7 ottobre, non tanto a livello di dichiarazioni dei decisori politici ma valutando le scelte relative al dispiegamento delle forze armate degli Stati Uniti d’America nell’area di responsabilità del Central Command che si occupa delle operazioni belliche nella ragione mediorientale e che ha responsabilità anche riguardo all’area asiatica orientale che giunge fino al Pakistan e al Kazakistan ed includendo per il continente africano il solo Egitto.

Il comando centrale ha ricevuto dal 7 ottobre 2023 rinforzi significativi sia nella componente navale sia in quella aerea, rinforzi che si possono sintetizzare in questo breve elenco: una porterei nucleare con il suo gruppo di scorta ed attacco (si tratta della portaerei Eisenhower CVN-69) si va ad affiancare alla portaerei Ford (CVN-78) e squadroni di F-15, F-35, A-10 e B-1B che sono stati ricollocati in varie basi della penisola araba. Una terza portaerei è salpata lo stesso giorno della Eisenhower (il 14 ottobre scorso) dalla base navale di North Island a San Diego (California), si tratta della Carl Vinson (CVN-70). La destinazione finale della Vinson non è oggi nota ma teoricamente potrebbe anch’essa andare a rinforzare il dispositivo militare del Central Command entro la metà del mese di novembre 2023. Tale impiego di forze non trova una giustificazione reale se valutiamo unicamente la guerra in atto tra Hamas ed Israele.

Gli obiettivi di Israele andrebbero quindi analizzati in un quadro più ampio, andando a sovrapporli almeno in parte a quelli americani non solo a livello regionale, ma anche a livello globale, in quanto la regione di pertinenza del Central Command può influenzare gli eventi bellici e geopolitici non solo in Medio Oriente ma anche in Europa centrale e nel Pacifico Occidentale. Preferiamo iniziare analizzando gli endpoint a livello locale nell’area meridionale di Israele, dove la sempre maggior forza militare di Hamas, unita ad una imponente crescita demografica della popolazione di Gaza, ha messo sotto pressione le comunità di confine e lo stesso stato israeliano in questi anni. Gaza non è autonoma per l’acqua potabile, per l’energia, per l’approvvigionamento alimentare, per la sanità di alto livello, tutti servizi per i quali i cittadini di Gaza, ed Hamas stesso, ricorrono, o per meglio dire ricorrevano, all’aiuto di Israele che forniva alla Striscia acqua, elettricità, cibo, medicine e le cure avanzate per casi particolari. Nonostante questa politica accomodante, testimoniata dallo sviluppo edilizio e demografico della Striscia, il 7 ottobre almeno duemilacinquecento uomini di Hamas, più precisamente delle brigate Izz din al Qassam (che rappresentano la forza combattente primaria di Hamas) hanno ucciso a sangue freddo non solo i soldati israeliani, trovati senza armi in un giorno di festa nelle loro basi, ma anche ogni civile gli sia capitato a tiro, donne vecchi e bambini inclusi. La scelta di Hamas di fare più vittime che ostaggi, la decisone della formazione terroristica di uccidere anche chi è appena venuto al mondo, non affidandosi alla macabra casualità di un missile lanciato su un centro abitato, come sempre fatto in passato, ma sparando a distanza ravvicinata anche a bambini di pochi mesi nei loro letti, ha innescato in Israele il primo obiettivo di questa azione: la rappresaglia, iniziata non appena tutto il territorio israeliano non vedeva più la presenza di soldati di Hamas. Una rappresaglia durissima, immediata, diretta, dando priorità assoluta all’eliminazione degli operativi di Hamas, avvisando comunque i civili delle operazioni imminenti, ma con preavvisi più scarsi e in queste occasioni assolutamente perentori e non negoziabili. Una rappresaglia che giorno dopo giorno lascia il posto alla pianificazione relativa al totale smantellamento di Hamas, l’obiettivo più evidente della prima fase della guerra.

È tuttavia impossibile eradicare Hamas dalla Striscia di Gaza con una singola seppur complessa operazione aerea. Per far sì che Hamas non governi più Gaza la struttura piramidale dell’organizzazione va minata alle fondamenta, non solo eliminando il vertice politico e militare, ma rendendo manifesto il fatto che le brigate Al Qassam non sono in grado di difendere la Striscia e che essersi affidati al governo di Hamas stia portando l’intera Gaza verso l’abisso, sottolineando il fatto che Hamas utilizza civili e ostaggi come scudi umani. Per raggiungere gli endpoint nella campagna di Gaza è necessario un intervento dalla terra e dal mare, un intervento che reclamerà molte vite da ambedue le parti, che sarà più complesso più alto sarà il numero di civili presenti nelle aree di operazioni. Per questo motivo è stata interrotta la fornitura dei servizi provenienti da Israele e al sesto giorno di guerra l’IDF ha richiesto l’evacuazione totale dei civili che vivono a nord dello Wadi Gaza, un torrente asciutto per la maggior parte dell’anno che attraversa Gaza City e che viene individuato come confine meridionale di un’area militare attiva, all’interno della quale la presenza dei civili deve essere evitata per la loro stessa incolumità. Impossibile pensare alla completa o parziale evacuazione dei civili verso l’Egitto che non permetterà alla popolazione di Gaza di superare il confine al valico di Rafah.

Gaza è abitata da circa 2 milioni di persone e la gran parte di esse potrebbe nelle prossime settimane ritrovarsi all’interno di un’area militare attiva e quindi doverla abbandonare. L’Egitto non ha alcun interesse ad accogliere due milioni di profughi, la nazione egiziana non si è mai del tutto stabilizzata dopo il colpo di stato di El Sisi che ha abbattuto la Fratellanza Musulmana al potere; quei due milioni di palestinesi potrebbero rappresentare per la Fratellanza un bacino ideale per reclutare nuovi membri attivi. Stessa scelta è stata esplicitata dalla Giordania, che ha categoricamente escluso la possibilità di aprire i propri confini ad eventuali profughi palestinesi. Alla luce di tali situazione Israele non ha alcuna intenzione di mettere in difficoltà il governo del Cairo, un governo certo non affidabile in maniera assoluta ma che si è accreditato con i fatti come un partner ragionevole in molti settori strategici, dall’energia al ruolo di mediatore per gli accordi di Abramo, ed attivo nel combattere il terrorismo che originava nel Sinai. Sarà quindi individuata un’area meridionale della Striscia che sarà identificata come un’area umanitaria esclusa dal conflitto.

È in questo contesto caotico che emerge quale possa essere l’obiettivo di respiro strategico di Israele (e in parte degli americani) che vada oltre la geografia di Gaza. L’obiettivo comune di ridurre, non solo di contenere, l’influenza iraniana nella regione sia a livello militare che nella sfera politica, limitando la capacità di penetrare gli apparati decisionali e gli animi delle opinioni pubbliche degli stati facenti parte della “Mezzaluna Sciita”. Se Teheran deciderà di non agire davanti alla probabile sconfitta miliare di Hamas a Gaza, dinnanzi all’evidenza che l’esercito di Hamas non sia in grado di mantenere il controllo sulla metà settentrionale della Striscia, agli occhi dei suoi alleati il prestigio e la capacità di persuasione degli Ayatollah nell’intera regione subirà un grave colpo. Gli avversari sunniti in tutta la regione di influenza iraniana, costretti, dopo la caduta di Saddam e dopo la devastante parentesi sanguinaria dello Stato Islamico, alla sottomissione nei confronti degli sciiti, potranno riorganizzarsi sotto la spinta dei denari arabi, così come le fazioni palestinesi torneranno nell’orbita esclusiva delle monarchie sunnite del Golfo togliendo a Teheran quei proxy cruciali per spingere la stessa Arabia Saudita ad accordi che andrebbero oltre la pacifica tolleranza reciproca tra Teheran e Riad.

Al contrario, se l’Iran ordinasse ai propri proxy di aprire un secondo o un terzo fronte nella guerra contro Israele, si materializzerebbe quella guerra esistenziale alla quale ha fatto riferimento il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei suoi discorsi successivi alla dichiarazione dello stato di guerra. Una battaglia su tre fronti metterebbe alla stremo le difese antimissile di Israele comportando inevitabilmente danni significativi alle infrastrutture strategiche israeliane e ai centri abitati maggiori, determinando, secondo le dichiarazioni della Casa Bianca, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti d’America ben consci della capacità di rappresaglia finale di Israele. Gli Usa allo stesso tempo intravedrebbero la possibilità di assestare un colpo devastante all’asse russo-cino-iraniano, che vede nell’Iran mezzo e strumento fondamentale dello scontro geopolitico di lungo termine con il blocco Occidentale, con una Cina che ha abbandonato la sua tradizionale terzietà nel conflitto arabo-israeliano. Il terzo componente dell’asse russo-cino-iraniano, il più debole in questa fase storica, e cioè l’Iran, ha dato vita nella Mezzaluna Sciita ad una struttura di controllo politico-militare ed economica nella quale Teheran rappresenta la testa, Hezbollah in Libano il corpo e le milizie di Gaza la coda. Eliminare unicamente la coda della struttura di potere iraniana in Medio Oriente non cambierebbe significativamente gli equilibri nella regione, per cui, in caso di conflitto regionale, la potenza militare americana potrebbe concentrarsi su obiettivi strategici in Siria e direttamente in Iran, lasciando ad Israele il compito di combattere fisicamente la propria guerra contro l’esercito di Hamas e contro l’Hezbollah libanese.

Non è certo interesse di Israele vedere le proprie strutture strategiche devastate dalle decine di migliaia di missili in possesso dei proxy iraniani, così come non è interesse di Israele indebolire l’autorità palestinese (ANP), infatti sarebbe una ulteriore minaccia esistenziale per Israele essere testimoni del crollo della ANP e della possibile rivolta della popolazione araba in Cisgiordania, fatto che potrebbe catalizzare la ribellione di parte degli arabi con cittadinanza israeliana, dando vita ad un guerra civile che minerebbe alle fondamenta lo stato ebraico.

Esiste inoltre una terza minaccia esistenziale, più volte citata da Netanyahu e che Israele potrebbe essere tentato di eliminare radicalmente: si tratta del programma nucleare iraniano, un progetto militare che, nel caso fosse portato a termine, sarebbe in grado di mettere in dubbio l’esistenza stessa dello stato ebraico.
Israele si fonda sulla capacità di attrarre ebrei da tutto il mondo, uomini e donne che desiderano vivere nella biblica terra promessa, e che soprattuto desiderano abitare in un luogo sicuro, dove non sia presente l’antisemitismo. Gli immigrati in Israele cercano un luogo scandito dai ritmi della religione ebraica, che sia per loro e per i loro figli un paese dove la Shoah non possa accadere mai più. Ma Israele è un paese di piccole dimensioni, con poche concentrazioni urbane estremamente dense. La presenza nella regione di uno stato millenarista che persegue la distruzione di Israele, che sostiene organizzazioni terroristiche che hanno nella loro carta fondativa l’obiettivo della distruzione dello stato ebraico, fa già percepire a molti il territorio di Israele come non più sicuro. Un Iran dotato dell’arma atomica sarebbe in grado di aumentare questa percezione di insicurezza e rallentare fortemente l’immigrazione degli ebrei in Israele giungendo, in potenza, ad innescare un flusso di emigrazione, fatto che segnerebbe la fine dei progetti di sviluppo e prosperità immaginati dei fondatori della nazione israeliana.

In sintesi, alla luce di quando analizzato, un endpoint maggiore di Israele risulta essere probabilmente quello di eradicare Hamas, facendo comprendere ai decisori di Gaza che la via dei finanziamenti, del sostegno politico e degli armamenti che origina a Teheran non è più percorribile, ed allo stesso tempo assicurarsi la stabilità della Cisgiordania e dell’ANP, limitando in prospettiva la potenza militare dell’Hezbollah ed essere certi che le Guardie della Rivoluzione non siano decisive in Siria, neutralizzando infine il programma nucleare dell’Iran.

Per gli Stati Uniti gli obiettivi primari che potrebbero essere condivisi da Israele sono essere rappresentati dal contenimento attivo dell’influenza iraniana in tutta la Mezzaluna Sciita, limitando i rischi di una destabilizzazione della Giordania, oggi l’unico paese filo-americano (ed ancor più filo-britannico) ancora solido nell’area prossima alla “Mezzaluna Sciita”.

La struttura organizzata dello stato iraniano non potrà facilmente essere messa in discussione con una campagna militare aerea, ma sarà possibile limitare in maniera significativa, anche se temporanea, la possibilità di supporto energetico iraniano al competitor cinese e il supporto militare di Teheran a Mosca nella guerra in Ucraina. Le variabili che determineranno la scelta delle exit strategy quindi non andranno ricercate ed individuate solo su scala locale o regionale, ma con uno sguardo che si volga anche a livello globale, essendo questo conflitto combattuto non in tempo di pace ma durante un conflitto militare-economico e politico che coinvolge le principali potenze mondiali in tutti i domini del confronto bellico.